Mi ha colpito in ritardo ma allo stesso tempo significativamente il notevole esordio dei californiani Cold War Kids con il loro "Robbers & Cowards".
Nonostante la pessima recensione di Pitchfork, che li accusa anche di bieca propaganda religiosa à-la-Bush, devo dire che dopo il primo, tremendo ascolto, hanno conquistato la mia playlist.
Invece i cari ragazzi riescono a intrecciare un variegato pastiche musicale, pieno di rimandi sui quali l'ostica voce del cantante vibra e graffia raccontando ciniche storie di realismo sociale, seppure con qualche riferimento di troppo ad una teologia della grazie di stampo calvinista. D'altrone il titolo richiama moltissimo l'ultimo Tom Waits, al quale evidentemente i californiani si ispirano, e bene, nel caleidoscopio di suoni e stili.
Si inizia con la zoppicante "We used to vacation", in cui gli improvvisi cambi di ritmo e di voce seguono le perfide lamentazioni dell'ubriacone con la famiglia a pezzi che promette di smettere senza riuscirci, e le chitarre aggrediscono sia le sue melliflue promesse che il suo gemito finale. Meno opprimente segue "Hang me up to dry", dal ritornello azzeccatissimo e dal sottofondo fatto di arpeggi di piano molto, molto jazzy, mentre la voce s'alza e si inerpica.
Le chitarre più rock tornano protagoniste in "Tell me in the morning", in cui però l'evidente richiamo all'Onnipotente si fa pervasivo e sembra di ascoltare un piccolo Jeff Buckley che canta Hallelujah, senza averne magari l'estensione vocale ma con risultati di tutto rispetto. La breve parentesi country-blues di "Hair down" non fa altro che introdurre la bellissima "Passing the hat" che si apre con suggestione morriconiane da western sudato e sporco, piena di saloon e sole, ma che invece parla di un furto perpetrato in chiesa per la più nera disperazione, e la voce grida il dolore e la pena di un uomo che ruba e non può fare altrimenti.
Si prosegue con il gospel da profondo sud di "Saint John", pieno dei soliti richiami al perdono divino, ma con "Robbers" si cambia decisamente registro e la voce diventa un'assenza, riprendendo fiato dalle ottime prove dei pezzi precedenti, mentre aleggia in sottofondo una batteria, e diversi rumori.
Con "Hospital beds" arriva l'altro pezzo forte del disco, in cui la voce torna primadonna e su un piano insistente si inserisce una melodia struggente e un po' paesaggistica, che parla del dolore umano e lo urla e lo grida in un ritornello battente molto affascinante.
Dopo cotanto sforzo l'album raggiunge i suoi pezzi più scarni e c'è solo il tempo della lieve ninna nanna "Pregnant", fischiettata piano piano in falsetto, dei soliti canoni più indie-rock di "Red wine, success!" e nuovamente di un falsetto inascoltabile in "God, make up your mind", ma con un gradevole piano ad accompagnare.
Si chiude con "Rubidoux" e con una ghost-track dai toni un po' troppo evangelici, ma entrambe le canzoni riescono a confermare la buona impressione che questo disco lascia in mente, nelle orecchie e nella voglia di riascoltarlo.
Da ascoltare: Hospital beds, Passing the hat, We used to vacation